"Szanowna Pani Ewo,
(...) przesyłam w załączeniu wspomnienie o p. Zygmuncie.
Znam prof. Frasnedi'ego od 2004 r., zajęcia z nim i z jego doktorantami z dydaktyki nauczania języka włoskiego ukształtowały moje podejście do ucznia (nie uczył nas, jak przygotowywać ćwiczenia z gramatyki, ale pokazał, jak szanować młodzież i czego od niej wymagać), dlatego zupełnie mnie nie zdziwiło, że miał coś wspólnego z "diasporą Grotowskiego". Przeglądając archiwum Instytutu znalazłam jego aplikację na staż w ramach Biennale". Katarzyna Woźniak
- Fabrizio Fransedi professore dell'Universita' di Bologna https://www.unibo.it/sitoweb/fabrizio.frasnedi/cv
Il
miracolo della mia “apocalypsis”.
Coonobbi Zygmunt a Venezia. Ebbi la
fortuna di partecipare allo stage sulla vocalità che egli tenne alla Biennale –
teatro. Era il ……. (la data, per favore,
non riesco a ricordarla). Ero un trentenne con già una vita alle spalle, aperto
al futuro ma con nodi intrecciati di ansie e paure.
Pensavo e desideravo che il teatro
sarebbe stato la mia vita. Non accadde, non professionalmente almeno, perché
restò, invece, insieme alla musica, il più grande amore. E perché vivo e ho
vissuto con un’anima fatta di teatro e di musica. Shakespeare ha detto più
volte che la vita è un teatro, e ha anche aggiunto che, sulla scena della vita,
siamo attori piuttosto scadenti. Eppure, in questa nostra goffaggine nel
recitare copioni da sempre già scritti, e nei quali ci sforziamo talvolta di
aggiungere qualche battuta che sia proprio nostra; in questo nostro annaspare
sulla scena del mondo c’è una bellezza e una grandezza che non mi sono mai
stancato di osservare e di amare. Il “prologo” dei Pagliacci dice bene perché.
E voi, piuttosto che le
nostre povere
gabbane d'istrioni, le
nostr'anime
considerate, poiché noi
siam uomini
di carne e d'ossa, e
che di quest'orfano
mondo al pari di voi
spiriamo l'aere!
Recitiamo male sulla scena, come poveri
istrioni appunto, come recitiamo male nella vita, e per lo stesso motivo,
perché ci è terribilmente difficile essere veri. Uomini che assomigliano a
guitti, dunque, ma anche guitti che non riescono a essere uomini davvero.
Recitar, tremenda cosa.
Anche nel cattivo teatro c’è un
fascino, tuttavia, come ce n’è uno nel nostro vivere annaspando. Perché in
entrambe le dimensioni, nella vita e sulla scena, appare così la nostra prima condizione,
quella dalla quale partiamo per le nostre avventure di conoscenza e di saggezza,
alla ricerca, appunto, di altre possibili verità.
Sono sempre stato appassionato dalle
ricerche di verità. Non da quelle filosofiche, poiché in esse la ragione è
sempre in scacco, tradita dai suoi stessi tranelli, ma da quelle, piuttosto,
che si manifestano come vita che dà vita alla vita: quelle dunque che si dicono
con le note metafore dell’acqua che disseta, delle parole che comunicano vita,
o che si intuiscono leggendo una storia o contemplando un agire, come appunto
avviene in teatro.
L’amore per il teatro viveva dunque,
in me, dentro l’appassionata ricerca dei percorsi capaci di spalancare l’anima
e farle sentire il sapore del vivere.
La compagnia di Grotowski era per
me, allora, un oggetto sacrale, che m’intimoriva e mi attraeva nello stesso
tempo, e che pensavo come uno di quei luoghi del mondo nei quali la superficie
delle cose comunica con le sorgenti nascoste dalle quali gli uomini traggono,
con lavoro e fatica, fiato, respiro, luce, “verità” insomma, di quelle che si
riconoscono dal dono di vita che sanno comunicare.
Partii dunque per Venezia in ansia.
Sono sempre stato ansioso. Temevo per la conquista del biglietto, prima di
tutto; sapevo che pochi sarebbero stati ammessi a vedere Apokalypsis, e io non avevo un accreditamento ufficiale, né come
critico, né come studioso (perché non mi venne in mente che avrei potuto
averlo?). Feci dunque una coda lunghissima al botteghino, il quale, oltretutto,
si doveva cercare per invia et errores, come
in un vero percorso iniziatico. Ebbi il biglietto anche quella volta (non sono
mai rimasto fuori da un teatro, neppure alla scala nelle serate di punta), ma
il biglietto era una condizione necessaria ma non sufficiente. Bisognava
superare una specie di esame, convincere la compagnia dell’autenticità del
proprio desiderio di assistere allo spettacolo. Era così, e fui dunque
imbarcato da un qualche Caronte sulla barchetta diretta all’isola nella quale
sarebbe avvenuta la rappresentazione. Seguii spasmodicamente ogni gesto,ogni
passo, ogni respiro degli attori in scena; fui catturato da quel fraseggio
sussurrato nel quale nulla era ovvio o casuale, ma non raggiunsi l’estasi.
Non ricordo più che nesso ci fosse
fra la selezione per assistere allo spettacolo e quella per partecipare allo
stage.
Avevo scelto la voce. Perché ne
conoscevo il fascino. Perché, a teatro come all’opera, avevo più volte
sperimentato il brivido giù per la schiena che certe voci, certi timbri, certe
armoniche mi procuravano. Sapevo che la voce sa affondare nell’anima, con
strumenti e segreti tutti suoi, e che questi affondi appartengono al regno
della verità. Quanto a tecnica, però, ero digiuno: solo qualche inutile
pregiudizio sulla tecnica del belcanto classico.
Ricordo però bene la selezione.
Molik diede istruzioni nette e precise, quelle che poi avrebbe sempre ripetuto
per tutta la durata dello stage. Era un maestro duro, staccato, assolutamente
laico. All’inizio ne ebbi paura. Spiegherò meglio, passo dopo passo, che cosa
intendo per “laico”: è infatti un aggettivo molto importante.
Le istruzioni erano “tecniche”, e
non le ho mai dimenticate, anche perché ci lavorammo sopra per un paio d’anni,
a Bologna, con i giovani che condividevano con me l’esperienza del laboratorio
teatrale. Ma quello che avveniva in noi, seguendole, non era per nulla
solamente tecnico. E non riguardava solo la laringe. Noi uscivamo da quelle
sedute rivoltati come calzini. Altroché psicanalisi! Tornammo a casa, da quei
15 giorni, forti di un rapporto con noi stessi (e con il mondo, come sempre
succede quando il rapporto con sé stessi è autentico) che forse non avremmo mai
potuto raggiungere dopo anni di sedute con il miglior psicanalista del mondo; o
dopo altrettanti anni di servizio fedele al più grande guru d’oriente; o dopo
qualche decennio di esercizi spirituali Loyola. E senza che mai questo
traguardo ci venisse prospettato come scopo.
C’era dunque una dissimmetria
fortissima fra l’assoluta “laicità” delle istruzioni, l’assenza di qualsiasi
intrusione del maestro nel nostro foro interiore e il coinvolgimento
profondissimo nel caos dei propri abissi che ciascuno di noi viveva durante il
lavoro.
Ecco, intanto comincia a chiarirsi
il significato che attribuisco alla parola “laicità”. Il maestro dà istruzioni
(le vedremo in dettaglio) che non chiamano in causa l’”anima” dell’allievo, o
la sua coscienza; e non interviene mai, e per nessun motivo, sulla vicenda
interiore che l’allievo sta vivendo durante le sue performance. Tutela, è vero,
i suoi allievi dal pericolo dell’implosione psichica, ma lo fa con una semplice
ripetuta raccomandazione: “occhi aperti” e “c’è qualcuno di fronte a voi, e voi
vi state rivolgendo a lui”. Interviene quando vede qualcuno di noi precipitare
verso la crisi: interrompe, acquieta, ma non interviene mai su ciò che ha
provocato il cedimento dei meccanismi di controllo.
Zigmunt abbandona la sua laica e
benefica distanza solo quando la performance di uno di noi prende forma, ma la
abbandona in un modo che non la tradisce. È il suo giudizio, secco, netto: “non
vedo nulla”, “non sento nulla”, “non ci sei”, “non sta succedendo niente”;
oppure: “ecco, ora comincio a sentire”, “ora ci sei”, “sì, ora ci stai dicendo
qualcosa”. Qualcosa, ma mai che cosa. E sempre senza perché, tranne,
ovviamente, per censurare il tradimento delle sue istruzioni.
Eppure, nessuno di noi ha mai
dubitato che avesse ragione.
Voleva il “miracolo”, lo chiamerò
così. Voleva portare ciascuno di noi al punto di creare, nel suo corpo vocale,
la genesi di un evento assoluto, che s’imponesse come verità e autenticità e si
rivelasse, in modo indiscutibile, nella vibrazione corporea della voce.
Io lo vissi, quel miracolo. Per una
volta almeno, nella vita che sto vivendo, sono stato un artista. E da quel
giorno so che il miracolo è possibile, per tutti; che ha come condizione una
tecnica, ma che la tecnica non basta. Perché scoprire il segreto della voce che
sgorga e fluisce dal corpo, come una fontana, portata dall’energia muscolare
che proviene dal basso è necessario, come è indispensabile imparare la verità
controintuitiva che vuole il rilassamento completo degli organi vocali e
muscolari alti: laringe, collo, spalle. Non stringere, non premere, non
contrarre, non forzare con quegli strumenti. Tutto questo è vero e necessario,
ma esiste un’altra condizione, che chiamerò in sintesi la vittoria sulla paura
e sui suoi strumenti: tutti i chiavistelli del sé. Occorre mollare dentro,
aprire, éclater, brillare, schine. Allora sì, la voce “brilla”.
Spalancarsi nella voce, e così darsi, offrirsi senza paura di essere o di
perdere essere nel lasciarsi andar via. Se il sé resta chiuso e arroccato,
allora la tecnica sola non basta al miracolo. Produce certo qualcosa,
soprattutto se ci sono già doti naturali alla base, ma non accade la meraviglia
di una voce del tutto nuova, di una novità radicale e imprevedibile, che si
annuncia, esprime qualche traccia, pian piano si rassicura ed esplode alfine in
una metamorfosi che è davvero emersione di vita sepolta e segreta.
C’era dunque un rapporto
assolutamente geniale, mi dice la riflessione che ora sono chiamato a riaprire,
fra la dura e tecnica laicità delle istruzioni e il cammino per niente laico
che ciascuno di noi era chiamato a fare in sé stesso. Geniale perché il
soggetto, ciascuno di noi, insomma, non veniva mai “invaso” in modo diretto
dalle istruzioni del maestro, non veniva stretto in modo minaccioso e non
subiva nessun tipo di pressione diretta che riguardasse ciò che lo abitava nel
profondo. Veniva invece condotto, con strumenti laici e non violenti, sulla
soglia di una esperienza possibile, che poteva benissimo non vedere o non
valicare.
La zona delicata delle istruzioni,
quella nella quale avveniva l’opportunità, per l’allievo, di compiere un lavoro
su di sé che potesse produrre il miracolo, era quella che potrei chiamare
dell’apertura segreta alla relazione.
“Occhi aperti”, innanzitutto. Nulla
di più (ecco ancora la laicità). Il signficato non veniva dato. Lo vivevi, se e
come volevi. Devi proiettarti fuori di te, interpreto, ma neppure questo veniva
detto. E quegli occhi dovevano guardare qualcosa; e la voce a quel qualcosa
doveva parlare, anche senza parole, o con parole rubate alla memoria: un testo,
una canzone. C’erano le crepe nei muri, le macchie sul pavimento, lame di luce;
c’erano gli altri che lavoravano con te, coi loro visi, coi loro capelli, coi
loro occhi, con le piccole cose che portavano addosso. Poi doveva accadere che
dietro a quei piccoli segni, che dentro a quelle presenze altre presenze si
manifestassero. Tu, insomma, venivi richiamato a guardare qualcosa, e accadeva che
in quel qualcosa tu “vedessi” oggetti, luoghi, persone. Così, accadeva che tu
parlassi alla tua vita, alla tua memoria, ai luoghi e alle persone che la tua
mente evocava; accadeva che tu dicessi quel che non avevi mai detto, che tu
spiegassi quel che non avevi mai spiegato, che tu sentissi quel che non avevi
mai sentito, che tu capissi quel che non avevi mai capito. E poteva, allora,
accadere il miracolo. Che tu insomma vivessi un momento di verità, e che la tua
voce, già sul sentiero di un’impostazione corretta, già libera dalle strettoie
dell’abitudine e dalle contrazioni dell’ovvietà quotidiana, imboccasse quel
sentiero di verità e si caricasse di tutta la forza, di tutta l’energia, di
tutte le vibrazioni di quella ritrovata autenticità. Nessuno poi ti avrebbe
chiesto, e meno che meno il maestro, che cosa ti era accaduto, dove eri stato,
con chi avessi parlato, che cosa vessi rivissuto o sofferto, di che cosa ti
fossi finalmente liberato. Tu avevi già detto tutto senza dirlo, questo davvero
contava: avevi “detto” un testo, cantato una canzone, modulato stringhe di voce
e in quel tuo momento artistico si era dato il miracolo di qualcosa che era
accaduto in te ed era divenuto verità di glossolalia, di dizione, di canto. Che
meraviglia, in quei momenti, e che incredulità, quando capitava a te. Il
maestro, anche lui, era radioso, ma sempre assolutamente laico. “Ecco, ci sei.
Hai visto, ci sei. Così”.
Ho pensato spesso a quante vite si
potrebbero far di nuovo brillare, e quante voci esplodere, con quindici giorni
simili a quelli. Se lo proponessimo, ci prenderebbero per matti. È sempre così: chi conosce la via per uscire
dalle trappole non viene creduto, e deve contemplare desolato i triboli del
prossimo senza poter porgere l’aiuto che potrebbe e saprebbe.
Ho conosciuto guru e maestri capaci
di far brillare la vita, e di tutto questo avverto il privilegio e la
responsabilità. Ho cercato di vivere il mio mestiere di docente così,
insegnando in modo da fare brillare la vita, fra mille difficoltà. Sembra che
il nostro prossimo non abbia voglia di brillare. Io non posso dimenticare il
miracolo che ho vissuto con te, Zigmunt.
Cantai una canzone brasiliana: vai azulão…
Powyższy tekst, w tłumaczeniu Katarzyny Woźniak i Pauliny Safian
ukaże się, prawdopodobnie, w grotowski.net.
Nim to nastąpi, po wyrażeniu zgody zainteresowanych stron,
opublikowałam tekst w wersji polskiej 28.10.2013 http://ewamolik-zygmunt.blogspot.com/2013/10/fabrizio-frasnedi-tekst-nie-tylko-dla.html
Ewo, wspaniale. Czekają mnie wkrótce egzaminy z włoskiego, chętnie poćwiczę, jak znajdę siły na tym tekście. Pozdrawiam !
OdpowiedzUsuńczaro, jesteś pełna niespożytej energii. Włoski ? gratuluję !
OdpowiedzUsuńWarto znaleźć siły, szczególnie gdy interesuje się tą właśnie metodą i pożytkami płynącymi z jej stosowania.
O ile pamiętam, interesowałaś się szczegółami, wielokrotnie. Odwagi, jak mawiają Francuzi. Pozdrawiam :)
Ewo, tak jak napisałam, tak zrobiłam - wróciłam i przeczytałam. I była to czysta przyjemność, pięknie ten profesor pisze, bardzo literacko, z werwą i niesamowicie humanistycznym podejściem. To była prawdziwa przyjemność, ta lektura! Ciekawa jestem, jak to będzie brzmiało po polsku :) (a włoski jest po prostu bardzo podobny do francuskiego, choć nie ukrywam, że musiałam się trochę poduczyć)
OdpowiedzUsuń(Z moją energią gorzej, katar wpakował mnie do łóżka, marzę tylko, by móc znowu normalnie oddychać).
Pozdrawiam ciepło!
czaro, w tłumaczeniu Pań brzmi pięknie.
OdpowiedzUsuńTak, ten tekst to czysta przyjemność, nie tylko dlatego (oczywiście), że wychwala pedagogiczne talenty Z.M.
By znów normalnie oddychać zalecam: wapno musujące do brzuszka i kropelkę Amol'a w okolice noska :) Pozdrawiam równie ciepło!
Ewo, dziękuję za rady, mój katar już minął, ale co słychać w Molikowie??
OdpowiedzUsuńczaro, nie jest źle, a to już dobrze! Pozdrawiam :)
OdpowiedzUsuń